Capua, Italy

ORGANIZER: Marco Palasciano

CONTACT: palasciania@iol.it

LOCATION: Palazzo Lanza (Capua, corso Gran Priorato di Malta 25; free entrance)

TIME: h 21.50

TITLE OF THE EVENT: S’i’ fossi poeta cangerei ’l mondo. Una serata tra poesia e utopia

DESCRIPTION: a reading of poems and a debate on the theme «Can poetry change the world?» with eight poets of the Accademia Palasciania: Dino Arbolino, Antonio D’Agostino, Roberto Gaudioso, Luca Iavarone, Antonio Maggio, Marco Palasciano, Rosanna Pironti, Daniele Ventre; and also interventions by other poets in the audience.

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Capua, Italy — 14 Comments

  1. Marco Palasciano
    PUÒ LA POESIA CAMBIARE IL MONDO?

    Nel corso del mio discorso darò lettura dei seguenti brani poetici:

    […]
    ● Dante Alighieri, frammento dal canto I dell’Inferno
    ● Marco Palasciano, due frammenti da Un Amleto di ritagli e di pezze
    ● Marco Palasciano, frammento da Dialoghetto tra un principe e un filosofo
    […]
    ● Ugo Foscolo, frammento dai Sepolcri – dove sostituirò «la patria» con «amore» e «sventure» con «avventure»; a me piace cambiare le poesie.

    Ma può la poesia cambiare il mondo? Per cominciare, allargherei il concetto alla letteratura in generale, quindi lo restringerei alla letteratura alta […].

    L’alta letteratura è imprescindibile, a mio vedere, dalla dimensione filosofica […], perché una poesia o un romanzo o un dramma che non abbia alla propria base la Weltanschauung propria di un’anima filosofa, appassionata della verità, ma sia invece uno scritto fatto di puri echi, e non abbia altra finalità che far da esca per il soldo o il plauso, o far da vaso per defecarvi un patema, è cosa ben bassa.

    Contribuire a cambiare in meglio il mondo è il mio desiderio primario, fin da che ebbi bambino i primi pensierini filosoficini sul mondo che mi circondava, e soffocava, o faceva deserto intorno a me, o intorno alla splendente eterna fiamma cristallizzata del Bene, del Vero e del Bello. […] Come sperare di cambiare il mondo, io? con un libro, magari: perché ciò che meglio so fare, e che di fatto colma la mia vita […], è pensare, e secondariamente scrivere. Dunque, un libro. (Che nemmeno so poi se scriverò.) Un’opera mondo, anzi un’opera mutamondo, idealmente da sostituirsi alla Bibbia […]. Qualcosa di simile alla Commedia di Dante, […] o a un’enciclopedia. Bisogna sempre mirare il piú alto possibile, se si spera di realizzare qualcosina un minimo decente. «Questa vostra opera, signor mio, dovrebbe ambire a costituire il vertice del pensiero umano dall’inizio della civiltà a oggi, un racconto mirabile cui sia sotteso un sistema adamantino, luminoso da far impallidire Aristotele, Kant, Hegel…» [L’]opera mutamondo […] – ma prima ancora la filosofia alla sua base – per essere coerente con le sue ambizioni non potrebbe non tener conto, quantomeno,

    ● dei piú aggiornati dati della scienza […];
    ● di tutta la filosofia dall’antichità al presente, comparata, vagliata, e sistemata assiologicamente […];
    ● […] di tutti i tipi di sapienza artistica, il cui difettare inficia la reale comprensione del mondo […] (n.b.: dove il linguaggio scientifico non arriva, arriva il linguaggio poetico) […];
    ● […] del ludus […];
    ● dell’umana fragilità, fallibilità e facilità a cadere piú o meno profondamente nella follia;
    ● e ne consegue, come il giorno alla notte, che occorre infine grande empatia, grande amore, e pietà, finanche di sé stessi, e, infin, del mondo tutto; non della massa: non oclos, ma olos. […]

    Meglio essere un dilettante in tutti i campi insieme – purché un dilettante di bastante genio – anziché il massimo esperto mondiale in uno soltanto, perché ai mali del nostro mondo contribuisce anche la parcellizzazione del sapere, lo specialismo, come riflesso della generale tendenza alle divisioni tra popolo e popolo, tra individuo e individuo, e alle scissure interne dell’individuo stesso. Carlo Sini nel finale del suo trattatello sulla Filosofia teoretica auspica «una grande e inevitabile trasformazione, che mandi all’aria i castelli di carta della nostra cultura e sfondi le pareti dei saperi divisi e delle prassi impazzite».

    Fosse solo questo the problem! La ricerca pura è snobbata dalle grandi strutture, a fronte di scelte di tipo produttivistico; la nostra cultura è funestata dalla brama di denaro, un mostro che si ammoglia a tutti gli altri animali, ovvero contamina ogni campo (dalla politica all’informazione, dalla medicina all’arte, dallo sport alla guerra) e cosí rende quasi impossibile il progredire degli animi virtuosi e della loro idea di mondo:

    «ché questa bestia, per la qual tu gride,
    non lascia altrui passar per la sua via,
    ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
    e ha natura sì malvagia e ria,
    che mai non empie la bramosa voglia,
    e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
    Molti son li animali a cui s’ammoglia,
    e più saranno ancora, infin che ’l veltro
    verrà, che la farà morir con doglia.
    Questi non ciberà terra né peltro,
    ma sapïenza, amore e virtute».

    Centomila Veltri for a Change, ci vorrebbero! saremo mai all’altezza, noi poeti e poetini? O ci spaüriremo, e spariremo colla testa sotto la grigiorosea sabbia della pura lirica, confettata o amaretta, che a poco a poco in sé ci chiuda? ah! concepiremo la poesia «come un lusso culturale per neutrali che, lavandosene le mani, si disinteressano ed evadono», senza prender partito, fino a coprirci l’anima di macchie? [Cfr. Gabriel Celaya, La poesia è un’arma carica di futuro.]

    «Il mondo è fuor di sesto», dice Amleto; «che destino  esser nato per rimetterlo a posto!». (Direbbe un altro: «Che destino  esser nato per rimetterlo a posto!».) Ecco: il poeta è un po’ un Amleto che ha degli assassini da sputtanare, quantomeno.

    «il Sole […]
    fa spuntare i vermi dalle carogne!
    Oh, […] almeno fossi quello: una luce
    che cada sulle cose
    in modo da mostrarne la realtà
    piú intima e mostruosa. Cosí che tu vedresti
    [gli] insetti nella pancia dei pontefici,
    i vermi nel sorriso dei sovrani…
    Oh, voglio qui annotarmelo per benino,
    che uno può sorridere, sorridere,
    e versarti veleno nelle orecchie,
    droghe infette, tre volte distillate
    da Ecate, […] giú giú nell’anima!…

    Critica destruens. Poi viene la construens: la poesia come veicolo di un’ideologia positiva. Ma ne avremo la forza?

    «troppo difficile
    che un solo uomo possa capovolgere
    la terra – anche se è piú facile
    che possa farlo uno
    che non l’intera umanità riunita.
    Via, che tentare a fare? Chi vorrebbe
    sopportare tanto travaglio e pena,
    e subire lo scherno di chi non può comprenderlo,
    l’invidia dei mediocri, le ingiustizie dei potenti?
    Fare, disfare, e ancora
    è tutto da rifare. Chi vorrebbe
    soffrire
    per tutta la sua vita, […]
    sapendo che la morte spazzerà
    via d’un sol colpo tutta la sua torre
    di carte? Chi vorrebbe dedicarsi a
    costruire una cosa troppo bella
    per esser completata, e che completa
    finirebbe comunque per perire
    con il mondo alla prossima catastrofe?
    E perché non perirsene già adesso,
    abortire quell’opera e me stesso?
    Perché, se è cosí facile? perché, se basta solo
    una mano, che dico, una falange
    a schiacciare un bottone, a lasciarmi condurre
    ad una conclusione? Se ho una mente
    geometrica e brillante come dicono,
    perché sto a perder tempo sulla soglia
    e non scelgo una porta delle due? […]
    Essere
    o non essere».

    Il poeta Amleto muore, per aver troppo indugiato; e nasce al suo posto un nuovo eroe: il filosofo.

    «Questo è il problema: voi mancate, principe,
    di sintesi dialettica. Per sciôrre
    cotanto grumo d’atrabíle, occorre
    il matrimonio alchemico
    dï essere e non essere,
    reale e ïdeale. […]
    La ragione purgata dai suoi eccessi,
    strizzata come fa la lavandaia
    al panno, che lo torce e poi lo spande,
    or – tornato il sereno – ai râi del Vero
    accertato e del Certo che si invera
    s’asciuga, ond’esser vela della storia
    dell’uomo – non la boria di dèi e eroi. […]
    Riverran, riverran le vostre feste
    – passate le tempeste –, o Philosòphia
    e Philològhia unite finalmente
    nella mente dell’uom!: la qual, s’intende,
    è all’universo il sole che piú splende».

    Ora, a braccetto con la filosofia, alla quale almeno fin dai tempi di Marx – è risaputo – non è piú lecito occuparsi solo di descrivere il mondo ma deve anche cercar come cambiarlo, è tempo per la poesia di passare all’azione […]. Ma in ogni caso, che la poesia sia un cannone puntato contro i fiori del male o un fiore da infilare nei cannoni, quale effetto ha sul mondo, insomma, la poesia? Può, a esempio, convertire un camorrista? Ma no, quelli manco la leggono. E seppure la leggono, come il boss nel suo bunker legge Dante nel romanzo Acqua storta di Carrino, son capaci di strumentalizzarla per dare giustificazione divina ai propri malpensieri e malazioni. Piuttosto, certa poesia può servire da grilloparlante antierrore e da sprone a nobili azioni a chi possiede già nobili sentimenti, ma è timido o confuso, come un bambino o un principe danese.

    La funzione della letteratura è rammemorare all’uomo le potenzialità che egli ha, negative e positive. Non è necessario essere normativi (anzi sarebbe antipoetico […]): tutto va solo descritto, con chiarezza; e la filosofia ha per scopo primario proprio il disambiguare i significati delle cose. Ed ecco rammemorate le storie degli eroi. I monumenti, i sepolcri possono essere cancellati dal tempo, fino a che non resti piú una pietra; ma la poesia può continuare a eternare le gesta di quegli uomini (e donne), e soprattutto il loro significato. Ettore ha difeso Troia invano, ma come dice Orwell «Le azioni, anche se sono prive di effetto, non per questo risultano prive di significato»; e l’Iliade, prima su carta, poi su supporto magnetico, domani su stringhe ectoplasmatiche iperdimensionali, continuerà a tramandare quegli exempla.

    «A egregie cose il forte animo accendono
    l’urne dei forti, o Pindemonte[. E me,]
    me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
    del mortale pensiero animatrici.
    Siedon custodi de’ sepolcri, e quando
    il tempo con sue fredde ali vi spazza
    fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
    di lor canti i deserti, e l’armonia
    vince di mille secoli il deserto.
    E tu onor di pianti, Ettore, avrai
    ove fia santo e lagrimato il sangue
    per amore versato, e finché il Sole
    risplenderà sulle avventure umane».

    E anche oltre, perché il sole prima o poi si spegnerà, ma l’umanità del futuro, tanto meno umana di noi per forma quanto piú umana per spirito, avrà lasciato già questo mondo, a bordo di meravigliose astronavi, alla ricerca di «nuovi, strani mondi», «fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima».

    • Errata corrige:

      «Il mondo è fuor di sesto», dice Amleto; «che destino  esser nato per rimetterlo a posto!». (Direbbe un altro: «Che destino  esser nato per rimetterlo a posto!».)

      «Il mondo è fuor di sesto», dice Amleto; «che destino 🙁 esser nato per rimetterlo a posto!». (Direbbe un altro: «Che destino 🙂 esser nato per rimetterlo a posto!».)

  2. Daniele Ventre
    FRAMMENTO DI ITLODEO E FILALETE
    Ecloga

    Scena: una vetrina di fiori finti.

    ITLODEO
    Tu, Filalete? Tu qui? Non credevo avessi piacere
    di fiorerie pullulanti di plastica… Dove l’hai messa
    l’anima che t’insegnò: «Sarà di Filonda la mandria?»
    l’anima che ti dettò: «Sarà il gregge di Melibeo?»
    Forse fra questi bijoux contraffatti, in mezzo alle foglie
    false di carta velina, fra i ninnoli, stampi di serie,
    penduli sopra gli abeti ecologici delle feste?

    FILALETE
    Caro Itlodeo! Questa pace il registratore di cassa
    l’ha fatturata per noi, fantasmagorie d’algoritmi
    a calcolare gli introiti, le vendite. Quanto a Filonda,
    della sua mandria ne fa scatolame a norma di legge
    in un bazar d’Alessandria. Però Melibeo fa di meglio:
    dopo lo sfratto è migrato in Britannia; adesso mi scrive
    che le sue capre non ha da piangerle – la poesia
    è poesia, ma le capre ci puzzano… Caro Itlodeo,
    ora non servono più, queste voci sparse fra i vuoti,
    sillabe perse fra nudi silenzi. E del resto a sentirle
    abbandonate nel buio, deprimono: portano scritto
    dentro la loro matrice genetica l’agro destino
    (livida futilità) d’un amore un po’ solitario.

    ITLODEO
    Come puoi dire così, Filalete? Ancora ricordo
    quanto piaceva alle selve imparare dalla tua voce
    la melodia della quieta volubilità d’Amarilli,
    o l’armonia della danza umbratile di Galatea.
    Ogni sussurro o fruscio o liquido soffio di brezza,
    ogni leggero sorriso di fonti era voce al tuo sogno.
    Solo in quel tempo ho vedute le selve animarsi di ninfe.

    FILALETE
    Sogno rimase, Itlodeo. L’immagine delle creature
    passa in un vano brillio di memorie: al sogno non resta
    carne. Col tempo le voci si perdono – solo conosci
    trame di diafani volti tra futili pirotecnie
    Poi ti guarisce l’età, nell’animo: cresci e d’un tratto
    sai che le ninfe gentili non furono che desideri
    ad animare una muta natura, un brusio senza scopo;
    senti, nel tempo, che il mondo non muta a un mutare di voci.
    Tu l’hai covato fin troppo nell’animo, come un ragazzo,
    questo animarsi del mondo in un luccichio di non-senso:
    vecchio Itlodeo, nel tuo nome tu l’hai, questa scia di non-senso.

    ITLODEO
    Tu l’hai covata fin troppo nell’animo, questa vecchiaia
    delle parole e dei sogni. E non sai che inganno e non-senso
    hanno più spesso saggezza, che un registratore di cassa?

    FILALETE
    Ora mi ripeterai che l’amante inganna l’amato
    e chi si lascia ingannare sa più di chi sfugge all’inganno
    e chi ha saputo ingannare dà più di chi ignora l’inganno.
    Io non so altro che questo: una fioca voce di canti
    vale di fronte all’immenso procedere dell’ingranaggio
    meno d’un giunco piegato di fronte alla truce tempesta.
    Caro Itlodeo, cambieresti anche tu, se solo pensassi
    alla potenza spiegata nell’interminato bagliore
    delle città nella notte, brillanti in un vuoto di stelle
    ad offuscare le stelle, a incantare un cielo di latte,
    a trasformare la luce in nebbia. E vedresti le vite
    all’improvviso mutare e assumere giorno per giorno
    innumerevoli forme bellissime, nell’aggregato
    della materia biotica e abiotica, lungo una trama
    limpida d’informazioni animate in fibre di luce.
    Sì cambieresti anche tu, Itlodeo: vedresti le vite
    interconnesse alla fine in un corpo mistico, acceso,
    interfacciate in un canto, in un golfo mistico arreso
    all’armonia del controllo per la melodia delle forme
    innumerevoli, vive, bellissime. Questa ragione
    ora governa la terra: non servono più le parole.

    ITLODEO
    Forse io davvero l’avrò, nel nome, una scia di non-senso:
    la verità ch’è il tuo nome s’è persa in un gorgo d’oblio.
    Altro vedevo in quel tempo, nei boschi animati di ninfe.
    Altro vedresti di nuovo, se tu ricucissi i tuoi canti
    sulle tue toppe sdrucite, e lasciassi questa ragione
    muta di futilità e il registratore di cassa.
    Ora non vedi nemmeno l’immagine della ragione
    che innumerevoli forme animate in fibre di luce
    intesserebbero ancora in un corpo mistico, vivo
    d’una coscienza remota, se tu ritrovassi i tuoi canti,
    se non li avessi scordati e gettati all’onda del tempo,
    persa memoria e visione del mondo, a un rancore di Muse.
    Va’, Filalete, per te pregherei, vedessi tu il segno
    della natura profonda e l’inganno dolce del senso
    farsi ben più verità che la tua matrice d’oblio.
    Quando vedrai le tue forme esplodere senza contorni
    nella foschia del grigiore e ottundersi l’aria di nebbie
    tossiche, quando vedrai che i tiranni muti del mondo
    protenderanno le grida in artigli contro le vite,
    comprenderai che le capre non puzzano: solo quel giorno
    comprenderai che nel vuoto lasciato alle gore di fango,
    labili di vacuità, le parole servono ancora
    a suscitare dal vuoto un bosco animato di ninfe.

  3. Rosa Anna Pironti

    Io credo proprio di no però la poesia “serve” a chi la scrive ed ancor di più a chi la legge. Si dice che il poeta scriva per se stesso, ma non è vero, il poeta scrive anche per essere letto e per comunicare. La poesia è un mezzo con il quale il poeta rompe la sua non-comunicazione per comunicare, può sembrare un controsenso ma non lo è. E allora perchè la poesia non ha “mercato”, non cammina, non si diffonde? Per me la colpa di tutto ciò è da attribuire anche ai poeti, o presunti tali, che adorano usare paroloni astrusi e fuori moda, che si attengono molto, o forse solo, alla scrittura secondo gli schemi canonici.

    La poesia è un moto dell’anima, è un trasferire su carta le proprie sensazioni, è richiesta di essere ascoltati e tutto ciò va a cozzare con l’uso artefatto delle parole. Molti sono i Poeti che hanno scritto usando parole chiare e semplici come nella poesia Le parole di Charles Bukowski, quindi…

    Ho letto da qualche parte che i poeti “sentono” in altra maniera, non è vero, i poeti sono uomini e donne come tutti e sentono e provano ciò che proviamo tutti, forse è più corretto dire che hanno la capacità di trasferire su carta le proprie emozioni. E quando c’è questa capacità, la si sente, perchè una poesia per essere tale, ti deve colpire, ti deve emozionare, al di là delle parole usate e di quelle non usate, bisogna saper leggere negli spazi bianchi, intuire il non-detto, poi, per chi ne ha voglia, si passa all’“analisi del testo”.

    Oggi si usano molti sistemi per veicolare la poesia ma quello più usato è abbinarlo alla musica, ben venga ma bisogna fare molta attenzione: la musica può sopraffare la poesia. La poesia ha i suoi ritmi, le sue pause, ma sono diverse da quelle musicali. La poesia, per essere “assaporata” ha bisogno di silenzio.

    Anche per me scrivere poesie è stato un mezzo attraverso il quale sono riuscita a esprimere cose che, in altro modo, non sarei mai riuscita ad esternare.

    *

    CH’È STATO?

    Ch’è stato?
    Nun aggio capito cchiù niente
    ’sta vita è passata,
    ha fatto cchiù ampressa d’o viento,
    e cche m’ha lassato?

    Sfiatata, stancata
    nun tengo cchiù forza,
    nun voglio fà niente.
    Me songo stancata ’e parlà
    nun tengo cchiù genio ’e pazzià.

    Ch’è stato?
    Nun aggio capito cchiù niente
    l’ammore è passato,
    n’ammo ngarrat’o mumento,
    e cche m’ha lassato?

    Confusa, sturduta
    nun tengo cchiù ggenio
    ’e suffrì e spantecà.
    Me songo stancata ’e sperà
    nun tengo vulìo ’e cercà

    Ch’è stato?
    Nun aggio capito cchiù niente,
    ma saccio sulamente
    c’a vita nun se pò fermà.

    *

    CONSIDERAZIONI

    Che cosa cerchi, cosa vuoi da me?

    Non lo so, non so più cosa voglio; voglio vivere,
    emozionarmi ancora, anche solo per un po’, lo so a
    priori che nulla dura in eterno.

    Non faccio parte di quel gruppo di persone che
    mettono i puntini sulle i; la vita è dura con tutti, e
    quando c’è un qualcosa da cogliere lo si deve fare,
    non si può e non si deve lasciarlo andare via.

    Paura? Paura di sconvolgersi la vita?
    Ma cosa c’è di meglio che sconvolgersi la vita?
    Paura di soffrire? Non ti sei ancora abituato?
    E poi si soffre lo stesso e sempre.
    Paura di perder tempo dietro ad un’altra illusione?
    E perdere tempo nel decidere che fare, è forse meglio?

    Fermo restando che parlo per me, dal mio punto di
    vista, per la vita che ho vissuto, per l’esperienze
    che ho fatto e per l’età che ho oggi.
    Poi ognuno pensi come meglio crede.

    A cinquant’anni e più, non c’è più voglia di giocare,
    ed è impensabile assicurare ad un altro cose che
    non si sa se si possono dare.
    Si può essere solo se stessi, nient’altro.
    La maggior parte della vita è stata vissuta, la
    maggior parte dell’energie sono andate, la maggior
    parte delle prove superate, bene o male…

    Mi dirai: cosa rimane? Non hai più niente da offrire.
    C’è ancora molto, c’è dell’altro, in primo luogo me…
    poi… con te o senza di te…

    • Errata corrige:

      Io credo proprio di no però la poesia “serve” a chi la scrive ed ancor di più a chi la legge.

      La poesia può cambiare il mondo? Io credo proprio di no però la poesia “serve” a chi la scrive ed ancor di più a chi la legge.

  4. Antonio Maggio

    I testi da me proposti vertono sul concetto di “senso” che la poesia moderna sembra aver perso. Un tempo, il poeta aveva uno scopo e un ruolo all’interno della società; oggi il poeta non è più nulla, eppure è tutto, perché tutti vogliono essere poeta. Chi s’identifica con la figura antica del versificatore, chi cerca l’alloro del Petrarca, chi vorrebbe un ruolo sociale e il riconoscimento del proprio operato come Dante o Ariosto, è destinato a diventare oggetto di scherno o a essere scambiato per folle.

    Nel 1923, la coscienza di non possedere ruoli, schemi e punti di riferimento, è incarnata dal Montale di Ossi di Seppia, che ha saputo interpretare non solo l’angoscia e il disappunto dell’artista, ma anche la tragica disillusione dell’uomo moderno in ogni sua forma: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

    Non c’è più un senso per la poesia, non esiste più una forma. E non mi riferisco semplicemente alla metrica, alla struttura più o meno aperta o chiusa di un componimento. Uscire dalla forma chiusa e dal verso “imprigionante” ha prodotto la rivoluzione culturale del ‘900: ha aperto il senso e lo ha reso universale. Adesso, questa dilatazione ha portato a un eccesso; la poesia si è confusa con la canzonetta, si è mescolata al linguaggio comune, è rimasta attaccata al suolo come l’albatros di Baudelaire, senza avere, però, la possibilità di darsi slancio per volare di nuovo. La necessità è quindi trovare una nuova funzione da dare alla poesia, non chiedersi troppo se essa possa cambiare o no il mondo, perché il poeta vive comunque nell’illusione di poterlo fare; scrivere diventa un bisogno primario, uno sfogo, una sofferenza che connette l’io individuale a quello collettivo.

    Lawrence Ferlinghetti, poeta italo-americano tra i fondatori della beat generation, è uno di quelli che ancora crede che la poesia possa avere una funzione creatrice e salvifica, come ai tempi di Omero, e a quelli di Dante stesso. Poesia è, in fondo, la voce della quarta persona singolare. La speranza non è morta.

    *

    SONETTO

    Ti rintani poeta senza forma
    spogliato del tuo bene immateriale
    dentro il carcere chiuso d’un frattale
    scambiando la speranza con la norma.

    Ma forse pensi di lasciare un’orma
    di te, che brilli memore e immortale
    o l’epos dell’artista universale
    che plasma la parola e poi la informa?

    Hai il cuore devastato dal dolore,
    per questo ridurresti il mondo a pezzi
    e non t’accorgi del molle sfuggire

    delle cose, in attesa di morire,
    di abbandonare tra inutili vezzi
    versi persi e due vogel di colore.

    *

    HO PERCORSO UNA STRADA SENZA ATTESE

    Ho percorso una strada senza attese
    sulle trincee dell’anima beffarda
    edificate tra ponti spezzati
    e facce dissolute di persone
    prive di senno. Vivo nella colpa,
    la rabbia s’è mutata nel tumulto
    era agli angoli vuoti la distanza
    da me, della parola inerme e tu
    sorridevi nell’eremo dipinto
    donandomi il silenzio che s’inarca
    a un brulichio di suoni nel rimpianto.
    Se questa voce accende un cero molle,
    allora mi rimane di piegarla,
    evincerla dal ramo che la strozza,
    la fa dimenticare in una ruota
    con la coperta d’erba e carta straccia
    e la coscienza di essere un qualcosa
    che piange la natura disastrata
    nel suo sangue inquinato dal dolore.
    Noi siamo mitigati, come il vento
    dal soffio imprigionato dalla notte
    siamo la terra e l’aria nella grotta,
    gli specchi che riflettono la luce
    e non abbiamo forma, non ci serve
    ma ciò che ci confonde fa volare
    il nostro cuore antico nel vapore
    dell’incertezza. Sollèvati ancora
    privandoti del nome e del valore
    sei poco più di un battito del nulla
    e chiami la poesia con il suo nome
    geloso della grazia che non sente
    ragioni, e le sparute lodi stanche
    di facce innamorate nello scherno.
    Vivi, nella carezza del mio palmo
    che scrive, nell’inchiostro che ti macchia
    le mani, sulla lingua che non parla
    perché freme. Trasformati in pensiero,
    se rimani, hai sottratto l’utopia
    alla giacenza informe di tre versi;
    mi compiaccio di te e di quel che resta,
    pagliuzza che scintilla in tempi eversi.

  5. Roberto Gaudioso
    LA POESIA COME UTOPIA

    «L’arte si rivela politica nella sua stessa sostanza. Non si tratta di una questione d’intento autoriale o d’imposizione istituzionale, piuttosto di uno spiazzamento critico diffuso dal transito irriducibile del linguaggio stesso. […] In quanto ripudio di un suolo, della proprietà e delle convenzioni sociali, l’arte è sempre in divenire verso un altrove incerto. Essa non trionfa sulle ragioni della modernità, piuttosto le attraversa, asserendo un altro spazio, nel complesso più ambiguo, in cui la questione della volontà di conclusione è sospesa. In questo risiedono la sua autonomia e la sua politica» (Chambers I., Le molte voci del Mediterraneo, Cortina, Milano 2007, p. 58).

    Con queste parole Iain Chambers descrive l’arte. In questa prospettiva mi chiedo alla letteratura, come arte, e in particolare alla poesia, che posto spetti e quale effettivamente abbia. Le risposte potrebbero essere molteplici per quante sono le società. In Italia la poesia ha uno spazio molto ristretto, tale spazio è quello accademico da un lato oppure dall’altro quello delle persone che la utilizzano come mezzo terapeutico. Si priva o si mistifica, così, la voce stessa della poesia.

    «Ma la letteratura non è un fatto compiuto, né quella antica né quella moderna, essa è il territorio più aperto, ancora di quelle scienze in cui ogni nuova scoperta soppianta le vecchie – essa non è compiuta perché tutto il suo passato si riversa nel presente. Con la forza che le viene da tutte l’età, essa preme contro di noi, contro la soglia del tempo sulla quale noi sostiamo, e avanzando armata di tutte le sue profonde conoscenze, le antiche e le nuove, ci fa intendere che nessuna delle sue opere è datata e nessuna può essere resa inoffensiva, perché esse contengono tutti quei presupposti che si sottraggono a ogni accordo e catalogazione definitivi. Questi presupposti insiti nelle opere stesse vorrei provare a definirli presupposti “utopici”. Se le opere stesse non contenessero tali presupposti, la letteratura, con tutta la nostra simpatia, sarebbe un cimitero. […] La letteratura, invece, non ha bisogno di un Pantheon, non s’intende di morte, cielo e redenzione, essa conosce soltanto il proprio intento fortissimo di influenzare ogni presente, quello attuale o quello prossimo venturo» (Bachmann I., Frankfurter Vorlesungen: Probleme zeitgenössicher Dichtung, 1959, trad. it. Letteratura come utopia, Adelphi, Milano 2006, p. 110).

    Questo è quanto afferma Ingeborg Bachmann nelle sue lezioni a Francoforte.

    Non è, quindi, in tema particolare, nell’intento dell’autore, ma nel suo stesso essere che l’arte è “sovversiva” e, forse proprio perché nasce in un sistema culturale, si nutre di esso ed è sempre in rapporto dialettico con esso, tendendo sempre a superarlo e a essere universale. È presente un doppio movimento, da una parte l’arte si inscrive in un sistema culturale, come prodotto e mezzo produttore stesso (poiesis) di cultura e realtà, dall’altro va oltre questa, la nega, si pone in tensione nel Tempo, nella sua dimensione; è questo che la rende universale. Anche questo, se leggiamo con attenzione, ci dicono le parole di Chambers e Bachmann poco sopra citate.

    Secondo Roland Barthes mettere in versi le proprie parole, percepite in un profondo sé o in un “altrove”, non è mai un atto neutro: è una rivoluzione. Questo assunto è particolarmente vero se si considera la poesia moderna e contemporanea o, comunque, qualunque poesia che abbia smesso di cercare regole fuori da se stessa ed abbia iniziato a riflettere su unità minime e sempre più piccole che costituiscono l’espressione poetica, fino, nei casi estremi alla frantumazione della parola. Il poeta moderno cerca parole che siano nuove, più dense o luminose. Nella poesia moderna i concetti sono parole, si tratta dell’arte dell’invenzione, queste ultime riproducono la profondità e la singolarità dell’esperienza.

    «C’è dunque in ogni scrittura attuale una duplice postulazione: c’è il movimento di una rottura è quello di un avvento, c’è il tracciato stesso di ogni situazione rivoluzionaria, la cui fondamentale ambiguità è che la Rivoluzione deve ben attingere da ciò che vuole distruggere, fino all’immagine di quanto essa vuole conquistare. Come l’arte moderna nel suo complesso, la scrittura letteraria porta insieme l’alienazione della Storia e il suo sogno. In quanto necessità, essa attesta la frattura dei linguaggi, inseparabile da quella delle classi: in quanto Libertà, essa è la coscienza di questa frattura e lo sforzo stesso che tende a superarla. Sentendosi costantemente colpevole della propria solitudine, non per questo essa cessa di essere avida immaginazione, di una felicità delle parole; e così si spinge verso un linguaggio sognato la cui freschezza, per una specie di ideale anticipazione, potrebbe rappresentare la perfezione di un nuovo mondo adamitico dove il linguaggio non fosse più alienato. La moltiplicazione delle scritture istituisce una Letteratura nuova nella misura in cui questa inventa il proprio linguaggio solo per proiettarlo nel futuro: la Letteratura diventa l’Utopia del linguaggio» (Barthes R., Le degré zéro de l’écriture suivi de Nouveaux essais critiques, 1953, trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982, p 64).

    In questo senso sembrano puntualissimi e precisi, nonostante la loro enigmaticità, i versi di G. Ungaretti, come per esempio quelli della seconda strofa di Commiato in L’Allegria del 1919:

    «Quando trovo
    in questo mio silenzio
    una parola
    scavata è nella mia vita
    come un abisso»

    (Ungaretti G., Vita d’un uomo, Mondadori, Milano 2005, p. 58).

    Questo scavo interiore testimonia e conferma le parole di Barthes a proposito della poesia moderna. Il poeta moderno è colui che affonda nell’abisso dell’esistenza, della vita, e porta alla luce parole più nuove, più dense o luminose. La prima strofa del Porto sepolto della stessa raccolta recita:

    «Vi arriva il poeta
    e poi torna alla luce con i suoi canti
    e li disperde»

    (ivi, p. 23).

    In questa sfida linguistica, perché la poesia si serve della lingua, ma come linguaggio speciale, il poeta tanzaniano Euphrase Kezilahabi, riformatore della poesia e della lingua poetica della tradizione letteraria swahili, sembra ingaggiato. Egli scrive:

    «Possiamo dire che ogni uomo ha una certa possibilità alla poesia. Il neonato quando nasce deve piangere. Questo suono “A aaa!” possiamo dire che sia la prima poesia di ogni uomo nel momento che percepisce la vita esterna fuori da sua madre. […] Prendiamo un altro esempio; un uomo che porta un pesante sacco. Se questo sacco è davvero pesante l’uomo sforzandosi pronuncia “Mm! Mm!”. Questo suono “Mm!” è una sorta di poesia che aiuta l’uomo a trasportare il peso ed è segno che, per quell’uomo, quel carico è molto pesante» (Kezilahabi E., Ushairi na Nyimbo katika Utamaduni wetu [Poesia e canzoni nella nostra cultura], in Omari-Mvungi, Urithi wa Utamaduni wetu [L’eredità della nostra cultura], Tanzania Publishing House, Dar es Salaam 1981).

    Egli sente fortemente il peso del linguaggio nel suo doppio movimento rivoluzionario e reazionario. Il linguaggio poetico per lui ha una doppia funzione di liberare l’uomo e riportarlo alla sua stessa natura, forse ad un «mondo adamitico dove il linguaggio non sia più alienato». In questa ottica l’ultimo canzoniere di Euphrase Kezilahabi, Dhifa (Il Banchetto, 2008), è un percorso molto concentrato dal contenuto altamente filosofico e sociopolitico e dalla forma molto curata, il verso libero si fa, di volta in volta, estremamente musicale e ritmico, come una danza, oppure può assumere una forza onirica data dalle parole verso e un linguaggio fortemente allegorico. Questo canzoniere si chiude con la poesia PA!:

    «Pa! Pa! Pa!
    (silenzio)
    Pa!»

    (idem, Dhifa [Il Banchetto], Vide-Muwa, Nairobi 2008).

    *

    DAR ES SALAAM

    Nessun punto
    fermo
    è
    Dar es Salaam
    conosce l’ebano profumato
    sotto lo scialle rosso
    sotto i versi arabi
    grida la gola nera
    senza fretta senza fretta
    polepole taratibu ndio mwendo
    c’è sempre un culo da fottere in città
    non s’affretta finché la foga dei corpi danzanti
    – (quasi) si fondono
    molle e dolce ebano sognante e profumato –
    frenetici tamburi
    muscoli frenetici
    trillano glutei femminei di maschi arrapati
    – eretti enormi
    nella notte fonda
    stellata –
    suda la pelle harufu
    tutto accade Poesia uhuru
    ushairi wa ngoma kama mwili wa moto
    odore
    la Mama-lishe impasta i chapati
    terra di benzina, fango e polvere
    alle sue spalle pubblicità una soda nuova
    Melinda Tangawizi Cocacola
    il Masai forte di ebano treccine e perline
    colorate minaccia col suo lungo coltello
    il suo nuovo i-pod
    la ngoma dei razzismi s’affretta
    nel chiasso della città
    una mamma muta lancia del figlio
    il grido inscheletrito
    damu
    sembra asciutto in città
    chiusa nessuna cicatrice
    un brutto gioco di potere e controllo
    Miranda Tangawizi Konyagi siwezi kuelewa
    urlami contro il tuo essere
    bloccami col tuo fucile quotidiano
    in una strada qualunque
    sparami in faccia la tua collana rossa rabbia
    e disinteressato al colore dei fiori
    che si dischiudono come molle anfratto.
    Al centro – kitovu – una via di terra rossa
    apprestandosi alla meta i vitenge danzano
    ritmico passo sul capo sacco polveroso
    caldo giorno la gola del viandante secca ha sete
    Dar es Salaam nella sua lingua il silenzio grida

    *

    SORCI

    E le mie parole si fanno
    rosse
    come la terra ove il sole
    danza
    Afrika
    In Africa lo zenzero è un colore
    e la musica è pelle tesa su un buon legno
    percossa
    tensione
    percossa
    tendere fin su verso le stelle
    canto
    un tamburo la mia pelle
    le mie parole sorci
    mi faccio brigante fiero delle vesti femminee
    e il petto villoso
    parole malandrine
    rossi topi
    come lune
    alle quali canti affogati
    immolano grido d’agnello
    No!
    disperato della fogna
    tutto è negazione e sempre il cane
    caga – (il secreto della vita
    non si può dire
    né sottovoce né gridando –
    e la sborra fa un grido soffocato
    o la sua lingua il silenzio?)
    Un villaggio di schiaffi occhi
    immobili
    rumori zuffe: si picchiano come tamburi
    la pelle loro tesa e splendente sotto la luna
    silente in un mare di pianto
    uno scricciolo colpevole – tira
    tira tira tira imparerà
    strappa strappa strappa
    giudizio metterà
    picchia picchia picchia
    la bellezza passerà
    vento assente e nessun grido
    sangue come lune e topi
    chiodi arrugginiti su muri
    scalcinati i miei versi malandrini
    come il grido di sorici
    neri occhi lucenti di luna
    Josephine canta
    per spezzare le catene.

    *

    A MARCO P.

    Asfalto e silenzio
    mangio in questa gabbia di luce
    soffoc: soffo c a nte
    ante vuote scavate nella mia pelle
    carne
    voci mille voci
    non ne seguo una
    voci
    mille voci
    e adesso domani
    esco ieri sono uscito
    no lavoro ieri domani rientro
    il tempo scivola come un raggio di sole
    sul mare la luna è avorio
    come a casa mia lontano
    da lontano lettere a voce parole perse
    da lontano qui non sogno
    il tuo ano: ich kann keine Sprache
    un arcobaleno triste blu
    erba tagliata inebriante
    ho difficoltà ad articolare le parole
    punito prigione punito
    filo spinato mipaka
    né lavoro né libertà
    Confini invisibili Grenze sulle creste
    bahari
    la tua barba scura safari
    esplodono i ricci della passione
    misuro la mia inettitudine
    freddo rumore di biglie
    come grigie nuvole
    non vedo
    né il fischio dei treni su rotaie di metallo
    né del tempo il cambiare
    scivola
    sprofondo l’ossa a mare
    ich kann nicht verstehen
    e non sono
    stanco corpo in due metri luridi
    saturo il mio naso
    vuoto il vostro
    vuota la mia bocca
    ho sete di verità
    e non mangio
    perché ho sete
    né luce né acqua a rompere le mie catene
    bahari inapita mipaka
    nemmeno le piante
    crescono possono nemmeno una parola
    lingua sotterrata
    ritrovata ferrosa silenziosa
    grido manganello
    pianto sovrano
    senza corona sadico
    né fame né guerra né pace
    aperti i solchi delle mani
    non stringiamo né verità
    né necessità
    vene pulsanti damu
    si richiudono su me

    scintillante il mio corpo di sogno
    lancio le mie radici al cielo
    fiore di verità fiore di libertà

    • DANIELE VENTRE

      Dottore di ricerca in filologia classica e insegnante di materie letterarie, latino e greco nei licei classici, V., nato nel 1974 a Napoli e ivi laureatosi all’Università degli Studi “Federico II”, ha pubblicato nel 2010 presso la casa editrice catanese Mesogea una traduzione in esametri italiani dell’Iliade di Omero, per la quale ha ricevuto ex æquo il Premio “Achille Marazza” 2011. Come poeta ha tra l’altro partecipato al Premio “Giancarlo Mazzacurati e Vittorio Russo” 2010, indetto dalle Edizioni d’If, riuscendo a vedere pubblicati alcuni suoi sonetti nell’antologia relativa. Dall’agosto 2011 fa parte della redazione del blog letterario Nazione Indiana. Sta attualmente lavorando alla rifinitura delle traduzioni dell’Odissea e della Teogonia, di prossima pubblicazione presso Mesogea.

    • ROSA ANNA PIRONTI

      Rosa Anna Pironti – Rosanna, per chi la conosce e la frequenta – porta un cognome importante per la cultura napoletana, e non solo napoletana. È infatti discendente di quei Pironti che da quasi un secolo arricchiscono il panorana editoriale e libraio della città di Napoli. Rosanna da un po’ di tempo si occupa più direttamente e più diffusamente di mettere a frutto tutta l’esperienza accumulata in questi anni e si sta affermando come operatrice ed animatrice culturale; in più si dedica da tempo anche alla scrittura e alla poesia oltre ad aver approfondito con varie ricerche e articoli il tema della presenza delle donne nell’editoria libraria e nella scrittura.

    • MARCO PALASCIANO

      Pensatore eclettico e artista multidisciplinare, presidente dell’Accademia Palasciania, P., nato a Capua nel 1968, opera principalmente nei campi dell’alta letteratura, dell’attivismo etico e dell’oratoria didattica (v.p.e. le 12 lezioni di De natura mundi, 2011). Non si sbatte molto per pubblicare, preferendo dedicarsi a progetti a lunghissimo termine, indifferenti ai ritmi dell’editoria moderna. Su commissione e no, senza contare i non inscenati, ha scritto e talvolta diretto e interpretato 6 lavori teatrali (tra cui Un Amleto di ritagli e di pezze, 1998) e composto musiche di scena per altri 7. Si è laureato in regia presso la Libera Università del Cinema di Roma. È stato tra i vincitori del Premio “Laura Nobile” 1995 con L’insectarium dei burattini e per 3 volte tra i finalisti del Premio “Calvino”, la terza con Prove tecniche di romanzo storico (Lavieri, 2006). Suoi testi minori si trovano in Mundus (Valtrend, 2008), Napoli per le strade (Azimut, 2009) e altrove. Nell’ultimo decennio ha tenuto 18 concerti pianistici e 61 spettacoli di lectura Dantis.

    • ANTONIO MAGGIO

      Antonio Maggio, nato a Napoli nel 1976, ha studiato presso la facoltà di Lettere dell’Università “Federico II”. Fin dalla più tenera età si è sentito attratto dalla poesia e dalla letteratura e ha partecipato, nel corso degli anni, a diversi premi e a manifestazioni letterarie, anche se non sempre con regolarità.

      Ha ricevuto più volte premi esegnalazioni dal Premio letterario “Iride”, dall’Accademia Neapolis, dall’Accademia Megaris, dal Premio di Poesia “Danilo Masini” della città di Montevarchi. Nel 2008 ha vinto ex aequo il primo premio “Roberta Capasso” nell’ambito della XVII edizione del Premio “Megaris”.

      Pur non avendo ancora pubblicato un libro proprio o una raccolta di testi, diverse sue poesie sono pubblicate su antologie letterarie. Segnaliamo quella edita dalla casa editrice Pagine di Roma: Città di Licenza.

      Autore anche di prosa (sebbene nell’ultimo periodo si stia concentrando sulla poesia), compare recentemente tra i vincitori del Premio “Ulteriora Mirari”, sezione “Mosaici”, e vedrà presto la pubblicazione in antologia di due suoi racconti.

      Attualmente lavora nel sociale ma continua a coltivare interessi culturali e antropologici partecipando a iniziative con il Gren (gruppo ricerche esoteriche napoletano) e con l’Accademia Palasciania. Con il primo gruppo è stato già relatore di conferenze sui significati esoterici delle fiabe, sulla simbologia nel fumetto, sul linguaggio di Dante e dei Fedeli d’amore, e presto presenzierà a un convegno interdisciplinare in onore di Zecharia Sichtin con una relazione sulla clipeologia nella storia dell’arte.

      Con l’Accademia Palasciania ha partecipato alla gara di improvvisazione poetica in endecasillabi e settenari organizzata nel giorno del 212° compleanno di Giacomo Leopardi, in piazza del Plebiscito a Napoli.

    • ROBERTO GAUDIOSO

      Sono nato a Napoli il 5-7-84 e ho sempre vissuto a Pozzuoli escludendo però gli ultimi anni, ho trascorso un anno a Berlino (08/09) e un anno a Dar es Salaam (10/11). In realtà fin da piccolo scappavo per periodi più o meno lunghi in liguria.

      Dopo il liceo scientifico a Pozzuoli, mi sono indirizzato alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, ma dopo qualche anno l’amore per la poesia mi ha messo di fronte alla necessità di imparare altre lingue, ho, quindi, cambiato il mio percorso di studi, mi sono trasferito all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, percorso in Lingue e Letterature comparate, lingue di studio tedesco e swahili. Ho iniziato ad occuparmi e a pubblicare articoli sulla traduzione letteraria. Nel 2008 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie Camere Contigue – tra sottoscala e soffitta. Nel 2010 mi sono laureato con una tesi sulla poesia swahili di Euphrease Kezilahabi dal titolo Dalla soglia al profondo. Analisi della lirica di Euphrase Kezilahabi da Kichomi a Karibu ndani.

      Negli ultimi anni, convinto, dell’importanza dellla voce, e quindi della performance, ho partecipato a numerosi reading di poesie tra i quali Le isole si accendono, evento al quale prendo parte quasi ogni anno.

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